BULLISMO A SCUOLA

Lo SNADIR presente ad un Convegno sul bullismo a Ciampino, nella persona della prof.ssa Maricilla Cappai, vicesegretario nazionale

BULLISMO A SCUOLA

Gli educatori sono chiamati ad invertire la rotta con una educazione alla libertà, che è responsabilità, ed all’autonomia

Si è detto tanto oggi sul bullismo. Abbiamo appreso che è un fenomeno complesso che si manifesta con atti di prepotenza fisica e/o verbale, con atti di sopraffazione e di tacita accettazione degli stessi. Il bullo individua la vittima con il chiaro obiettivo di danneggiarla, facendole del male, portandola all’esclusione dal gruppo. Può trattarsi anche di una vera e propria persecuzione pervasiva dei nuovi strumenti tecnologici, capaci di veicolare immagini e parole in tempo reale. Le vittime perfette sono coloro che, come arma di difesa contro gli attacchi del bullo, non usano la violenza, ma la ragione, il dialogo e l’educazione, non riuscendo però nell’intento, poiché questo comportamento viene concepito come squallido e ridicolo nella visione del bullo. Ma … chi è il bullo - o carnefice, che dir si voglia, - se non una persona in difficoltà, in disagio? E qual è l’ambiente naturale in cui si consumano queste nefandezze? E dov’era la famiglia, la scuola quando il bambino o ragazzo passava dal punto zero alla demarcazione della linea, che porta allo scoppio, al classico comportamento da bullo? Bulli non si nasce. Si diventa. Per molti anni le indagini sul bullismo hanno rivolto la loro attenzione sulle prepotenze che avvengono nella scuola dell’obbligo, in realtà le prevaricazioni continuano nella scuola superiore e al di fuori di essa, nei bar, nelle feste, sui luoghi del lavoro, prendendo nomi diversi, nonnismo, mobbing e con modalità sempre più sofisticate e violente. Come contrastare questo fenomeno?
È necessario, prioritario direi, fare della scuola un luogo di aiuto reciproco, di cooperazione, di prosocialità e tradurre i saperi della scuola in saperi di cittadinanza. A livello collettivo, nella funzionalità della convivenza e dell’armonia delle persone, gruppi e società, si ipotizza che l’abbondanza di azioni prosociali produce una diminuzione dei comportamenti violenti.
Non è certo una impresa facile, tuttavia è solo attraverso la partecipazione studentesca, la qualità dell’insegnamento, la prevenzione del disagio giovanile, che è possibile contrastare violenza, bullismo ed illegalità. Se questo avviene, ha allora un senso la campagna nazionale avviata dal Ministro Fioroni (Direttiva ministeriale n. 16 del 5 febbraio 2007 sulle linee di indirizzo per la prevenzione e la lotta al bullismo), avvalendosi di numero verde ed osservatori regionali permanenti. Altrimenti la punizione fine a se stessa rimane lettera morta, e non potrà mai sortire quell’effetto cercato o almeno sperato. Fino a quando non verrà considerato il problema principale che è alla base del disagio giovanile, nulla potrà mai cambiare, anzi scivolerà pericolosamente verso il baratro. Ogni progetto di crescita implica fatica e dolore ineliminabili. Il messaggio che arriva oggi agli adolescenti, e ancor prima ai più piccoli, è invece del tutto illusorio, come se fosse possibile anestetizzare la vita. Ecco il perché del senso di onnipotenza e, in buona misura, di irresponsabilità dei nostri ragazzi. Il disastro educativo nasce da questa pretesa di eliminare la fatica di crescere. Fatica che implica anche un’autonomia progressiva di potersi sganciare dalla comodità del dipendere dai genitori. Il potenziamento dell’autostima rappresenta una via obbligata.
Sotto accusa le due agenzie educative: famiglia e scuola, che sembrano aver abdicato dal loro compito fondamentale: formare l’uomo educando. Non informare, ma formare.
I genitori dovranno riappropriarsi con determinazione della loro funzione educativa soprattutto sul piano della educazione emotiva. Bisogna ripartire proprio da qui. Dalla comunicazione emotiva e dai legami affettivi per affrontare il terremoto attuale nella relazione tra genitori e figli. Per far crescere figli forti, capaci di essere attori consapevoli nel reale teatro della vita e non semplici spettatori in balìa di capricci o mode del momento. E ancora, per essere capaci di fronteggiare con sicurezza e consapevolezza eventi buoni e cattivi che si presenteranno loro lungo la via della costruzione del sé, del proprio progetto uomo. Consapevoli di non essere soli né abbandonati a se stessi. Essendo però molto fragile la comunicazione emotiva in famiglia e nella scuola, si dovrebbero avviare veri e propri percorsi formativi per apprendere a comunicare. Dobbiamo prendere per mano i nostri figli, i nostri alunni, per accompagnarli lungo le vie difficili della vita, per aiutare un ”bruco a diventare farfalla”, una persona a crescere con i suoi tempi.
Gli educatori sono chiamati ad invertire la rotta con una educazione alla libertà - che è responsabilità - ed all’autonomia. Mi viene in mente il libro di Savater “Educare alla libertà”, la storia di un padre che si accinge ad educare il proprio figlio all’esercizio della libertà. I nostri figli, i nostri alunni sono soli. Soffrono di una solitudine interiore indicibile. Chiusi nella tristezza del loro mondo virtuale, essi raramente si confrontano con gli adulti. I nostri giovani hanno bisogno di dialogo, di verbalizzare i sentimenti, le esperienze e le emozioni sia a scuola che nella ritualità quotidiana della tavola, ormai caduta in disuso. Vorrebbero ciò che a mio avviso spetta loro di diritto: instaurare un rapporto interpersonale con l’altro. Per conoscere sé stessi, l’alterità, per confrontarsi, per crescere. Noi adulti, educatori, dobbiamo credere nelle loro potenzialità. Ognuno di loro ha un talento, dobbiamo dar loro l’opportunità di disvelarlo anche a sè stessi. Il problema da risolvere è dunque il grande vuoto esistenziale. E… siamo chiamati tutti: genitori, docenti, amministratori locali. Dirò di più. Il problema da risolvere è la scuola. Sì, proprio la scuola, che bada di più alla burocrazia che alla sostanza. Una scuola vecchia da svecchiare. Pensiamo all’età dei docenti; il salto generazionale non è indifferente. E i linguaggi? Si è lontani anni luce. E ancora, una scuola che ha trasformato il progetto scuola in tanti, tanti e numerosi progetti. Come se assommandoli si potesse ottenere il vero progetto: la costruzione dell’uomo. Una scuola dove il discorso valoriale è quasi sparito, in nome del relativismo etico e di una neutralità etica non ben definita.
Noi docenti abdichiamo al nostro ruolo, perché abbiamo perso noi stessi. Siamo abbandonati al nostro destino. Bisogna ricominciare da capo, far interagire le diverse agenzie educative presenti nel territorio : scuola, famiglia, parrocchia ed altre per individuare e proporre il progetto scuola del terzo millennio.
E lo Stato? Dovrebbe investire importanti risorse finanziarie ed umane. L’Italia dovrà mettere la scuola, la formazione e l’educazione in cima all’agenda politica, investendo massicciamente in capitale umano. Abbiamo appreso oggi che alcuni deputati, nell’ambito della pubblica istruzione, hanno proposto di inserire o ripristinare l’ora di educazione civica, per arginare il fenomeno del bullismo e prevenire il disagio giovanile. Io personalmente, ma in genere la categoria degli insegnanti, trovo sia una proposta sterile. Fa già parte dei curricola ed è diventata la serva dell’ora di storia, nel senso che viene regolarmente sacrificata. Recupererei invece le ormai già dimenticate cinque educazioni che concorrevano all’Educazione alla Convivenza Civile in forma multidisciplinare ed oggi insite in una “disciplina” “interdisciplinare” che è la Bioetica. La scuola deve acquisire nuove chiavi ermeneutiche per attrezzare i ragazzi a leggere la contemporaneità e per orientarvisi. Innanzitutto è necessario individuare alcuni nodi problematici significativi e cruciali che possano fungere da catalizzatori concettuali attorno ai quali organizzare adeguati strumenti ermeneutici che dovranno, a loro volta, offrire uno sguardo multiprospettico e interdisciplinare.
Ritengo che i temi della bioetica, specialmente se riportati alle loro matrici teoriche e collegati alle diverse prospettive culturali sottese, possano offrire chiavi interpretative di non poco conto per leggere e capire il mondo contemporaneo. Il fatto di ragionare, per esempio, su come nelle diverse prospettive bioetiche vengono affrontati i singoli temi alla luce del modo di intendere le nozioni di “qualità della vita” e “dignità della persona”, ci obbliga a riflettere su come l’uomo contemporaneo percepisce se stesso, anche nel suo rapportarsi con gli altri, sia a livello individuale che a livello sociale.
Didatticamente parlando, la bioetica si presta particolarmente a saggiare chiavi ermeneutiche della contemporaneità, attraverso questioni a volte raffinate, non banali, che in qualche modo costringono ad andare oltre i triti luoghi comuni troppo facilmente condivisi ed altrettanto facilmente disattesi. E per me, che insegno Religione Cattolica, coniugare bioetica e teologia è il massimo. Anche il più cupo degli studenti si sente chiamato in causa ed esprime se stesso, mettendosi in gioco. Anche il Papa recentemente ha ripreso questo argomento dicendo che la scuola oggi, davanti alle notevoli sfide che emergono nel campo dell’educazione delle nuove generazioni, è chiamata ad offrire agli alunni l’opportunità di approfondire validi messaggi di carattere culturale, sociale, etico e religioso e non essere soltanto luogo di apprendimento nozionistico. Per dirla col Santo Padre Benedetto XVI, “Chi insegna non può non percepire anche il risvolto morale di ogni umano sapere, perché l’uomo conosce per agire e l’agire è frutto della sua conoscenza”.
Avviandomi alla conclusione lancio una provocazione con qualche passo tratto da “E. FAURE, Rapporto sulle strategie dell’educazione (it. Orig., Apprende à etre, Paris, UNESCO 1972), tr. It. Armando, Roma 1973, pp. 137-138”. “Non è dunque venuto il momento di pretendere ben altro dai sistemi scolastici? E che cosa? Insegnare a vivere, insegnare ad imparare, in modo da poter acquisire nuove conoscenze durante tutta la vita; insegnare a pensare in modo libero e critico; insegnare ad amare il mondo e a renderlo più umano; insegnare a realizzarsi nel lavoro creativo. (…). Queste tesi sembrano astratte. Ma l’educazione è un’impresa di tali dimensioni che impegna alla radice il destino dell’uomo e non può essere circoscritta entro termini di strutture, di mezzi logistici, di procedure.”
Sbaglio, o il documento risale al 1972? Quanto tempo ancora?


Maricilla Cappai

Snadir  - venerdì 11 aprile 2008

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