Insegnanti di religione: la Corte di Giustizia europea potrebbe porre fine a tutto il precariato cronico

Il Tribunale di Napoli nel rimettere alla Corte di giustizia europea la questione sugli insegnanti di religione cattolica (CGUE causa C- 282/2019 : Gilda –Unams/Snadir C/Stato italiano) ha richiesto di riconoscere il potere di disapplicare le norme interne (dello Stato italiano) ostative al diritto all’immissione in ruolo e quindi all’applicazione della tutela consistente nella riqualificazione a tempo indeterminato dei contratti a termine che abbiano superato i 36 mesi di servizio.

 
Ad oggi la situazione degli insegnanti di religione, nonostante la sentenza Mascolo del 26.11.2014, è ancora ferma alla vecchia modalità di reclutamento scolastico con incarichi annuali e utilizzazione dei contratti a termine, spesso con una reiterazione che supera i 36 mesi di servizio continuativi.
 
Tale questione ripropone il cronico problema di tutto il precariato pubblico (scuola, sanità, enti locali, enti lirico-sinfonici, università, conservatori di musica, ecc.) che, allo stato, rimane del tutto privo di tutele sanzionatorie, sulla base di una normativa interna che ha precluso e preclude l’applicazione del “principio di effettività”, negando quindi la possibilità stessa che vi possano essere effettivi rimedi antiabusivi.
 
Anzi, il legislatore nazionale ha aggiunto ulteriori disposizioni (anche di contrattazione collettiva di comparto) che si pongono in netto contrasto con la direttiva 1999/70/CE, come per la scuola, per la sanità, per le fondazioni lirico-sinfoniche, per i conservatori di musica, per gli enti locali (compresi quelli siciliani), per limitarci alle fattispecie già esaminate dalla Corte di giustizia.
 
Pertanto, il giudizio che il tribunale di Napoli ha rimesso al vaglio della Corte di Giustizia – afferma il prof. Orazio Ruscica, segretario nazionale Snadir – assume una rilevante importanza per il precariato pubblico considerando che la Corte di Giustizia potrebbe pronunciarsi riaffermando l’applicazione della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea, direttamente all’interno degli Stati membri, ribadendo quanto recentemente statuito nella sentenza Mikova nella causa C-406/2015:
  • che «il principio di parità di trattamento costituisce un principio generale del diritto dell’Unione, ora sancito agli articoli 20 e 21 della Carta, che impone che situazioni analoghe non siano trattate in maniera diversa e che situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale, a meno che un simile trattamento non sia obiettivamente giustificato» (punto 57);
  • che «una differenza di trattamento è giustificata se si fonda su un criterio obiettivo e ragionevole, vale a dire qualora essa sia rapportata a un legittimo scopo perseguito dalla normativa in questione e tale differenza sia proporzionata allo scopo perseguito dal trattamento di cui trattasi» (punto 58).   
 
 

Fgu/Snadir, Professione i.r. , 11 aprile 2019, h.16,30
 
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